Scrivere sulla pelle per comunicare

18 Aprile 2008
Scrivere sulla pelle per comunicare

L’orticaria viene sovente definita “la tomba del dermatologo”, poiché spesso idiopatica (termine elegante per dire che non ne conosciamo la causa). 

Una batteria di esami di laboratorio, sierologici, colturali, radiologici, vengono fatti, spesso senza riuscire a capire la causa scatenante di questa malattia allergica, che rende la pelle pruriginosa e ricoperta da pomfi che appaiono e scompaiono nel giro di poche ore.

Lo stress è stato invocato più volte come causa nelle forme idiopatiche, ma qui vi è un altro fenomeno particolare chiamato “dermografismo”: strisciando semplicemente una punta sulla pelle, si forma una linea in rilievo, che dura pochi minuti, poi sparisce.

Gli atlanti di dermatologia mostrano spesso immagini di numeri, lettere o disegni ottenuti sul dorso dei pazienti col semplice sfregamento. È un test empirico molto semplice e diagnostico, che però non viene interpretato.

Innanzitutto è una patologia “allergica”, quindi c’è qualcosa o qualcuno che la persona non sopporta, verso cui è intollerante, ma non riesce a comunicarlo (forse anche a se stessa).

Cosa può fare allora? scriverlo. E dove? Sulla sua pelle.

Ma una parte di sé (razionale) rifiuta questo, non vuole o non può leggere questo, per cui dopo un po’ lo cancella, allo stesso modo in cui un’onda cancella i nostri disegni sul bagnasciuga.           

Analoga situazione è il tatuaggio: in questo caso la persona usa la propria pelle come un diario e lo fa leggere a tutti.

Fin dalla preistoria, l’uomo primitivo ha comunicato attraverso i colori i propri stati d’animo: i graffiti sulle pareti delle caverne, il proprio marchio su cavalli e bestiame, i colori di guerra su viso e torace. E quando il colore scuro della pelle rendeva poco evidente il trucco, si è passati a scolpire la pelle con la scarificazione (formazione di cicatrici in rilievo dette cheloidi) o l’inserimento di oggetti (orecchini, anelli al collo e alle caviglie, fino a piattelli labiali o auricolari) o la mutilazione vera e propria (circoncisione).

Nulla è cambiato da allora: la pelle è stata e sarà il nostro diario di bordo su cui segnare le imprese più significative e i nostri stati d’animo.

Gli eschimesi Angmagssalik si tatuano l’avambraccio per ricevere forza e precisione nel lancio dell’arpione; gli Indios brasiliani si segnano il viso per rinforzare la vista e i muscoli. Nelle tribù Maori, per esempio, il tatuaggio mako è un rito di iniziazione, requisito indispensabile per diventare un uomo vero e completo. Nel mondo islamico si fanno tatuaggi contro il malocchio; i guerrieri hawaiani hanno tatuaggi che li proteggono in battaglia o propiziatori nei confronti di animali pericolosi.

Carcerati, tossici, punk e dark utilizzano il tatuaggio, l’abbigliamento e gli accessori come criterio di esclusione dalla “società normale”, fieri di non appartenervi. Lo sfregio al viso, stigma di vergogna e biasimo, assume lo stesso significato.

Il nostro cervello primordiale non è cambiato e considera queste manifestazioni come un gesto di maturazione, di crescita e completamento (antropopoiesi) del nostro corpo; come coniare una moneta trasformandola da lingotto anonimo a monile di valore.

È grazie a questi segni che il corpo viene strappato da uno stato amorfo, indistinto, comune, e dotato di una nuova identità. E così la nostra pelle registra le stagioni della nostra vita, adeguandosi alle tendenze, alle mode, ai nostri umori e stati d’animo.

Si lascia colorare da trucco e tatuaggi, bruciare dal sole estivo e dalle lampade abbronzanti, bucare da orecchini e piercing, gonfiare da iniezioni di collagene e silicone, tagliare e ricucire dal chirurgo plastico, rasare e depilare.

Povera pelle, ma ti vogliamo davvero bene?