Colite e malattia di Crohn. Quando latte, glutine o lieviti ti segnalano che ne stai mangiando in eccesso

6 Maggio 2019
Colite e malattia di Crohn. Quando latte, glutine o lieviti ti segnalano che ne stai mangiando in eccesso

La relazione tra colite, malattia di Crohn, colite ulcerativa e altre forme di malattia infiammatoria intestinale (IBD) è sempre più evidente.

Nuove ricerche, come quella pubblicata su Internal Medicine nell’ottobre 2018, si aggiungono alle precedenti documentazioni, di cui Eurosalus ha parlato approfonditamente, che già segnalavano l’importanza del controllo di alcuni alimenti nel trattamento di queste forme (Xiao N et al, Intern Med. 2018 Oct 1;57(19):2787-2798. doi: 10.2169/internalmedicine.9377-17. Epub 2018 May 18). 

I ricercatori, gastroenterologi cinesi delll’Università di Shangai, hanno analizzato i livelli di Immunoglobuline G e di Immunoglobuline E specifici per alcuni alimenti in circa 200 pazienti di malattia di Crohn e in circa 100 pazienti affetti da colite ulcerativa. Hanno potuto verificare che nei malati di Crohn i livelli di IgG per una serie di alimenti (pomodoro, mais, soia, frumento, latte, uova, riso e merluzzo) erano statisticamente più elevati che nei soggetti normali di controllo. I livelli di IgG per pomodoro e mais avevano una relazione con i livelli di IgG totali dei pazienti mentre quelli relativi agli altri alimenti erano correlati ai livelli di IgE totali. 

text="Per trattare una forma infiammatoria intestinale è inidispensabile capire il livello di infiammazione, affiancando agli eventuali farmaci scelte dietetiche che devono sempre essere personalizzate e mai "standard"."

Questa considerazione riporta in primo piano quanto documentato da Finkelman nel 2016, che cioè esiste una importante interconnessione tra IgG e IgE nella identificazione e nella conoscenza di un alimento introdotto nell’organismo. 

Gli stessi autori hanno evidenziato che la riduzione farmacologica della risposta infiammatoria porta ad un abbassamento anche dei valori di IgG per i cibi, grazie anche al controllo attivo della permeabilità intestinale, aiutato dalla riduzione dell’infiammazione. 

La possibilità di ridurre l’infiammazione attraverso una dieta appropriata resta il tema da discutere.

Finanche la Cochrane (organismo indipendente di controllo sulla produzione scientifica mondiale) in una sua analisi pubblicata nel febbraio 2019 riporta una serie di dati a favore del trattamento dietetico e una serie di dati non conclusivi in questo senso (Limketkal BN et al, Cochrane Database Syst Rev. 2019 Feb 8;2:CD012839. doi: 10.1002/14651858.CD012839.pub2). Lo stesso istituto, di solito fortemente critico su questi aspetti, riconoscendone molti aspetti positivi mantiene ancora un atteggiamento di attesa di nuove evidenze. 

È importante riconoscere che tutte le impostazioni dietetiche analizzate dalla Cochrane si riferivano a diete “aspecifiche”, come una dieta senza carne, senza cibi raffinati, senza glutine, una dieta FODMAP e così via.

Nel centro SMA di Milano si seguono dei protocolli terapeutici che identificano con successo il profilo alimentare personale, consentendo quindi di controllare (senza mai eliminare) il cibo o i cibi che sono mangiati in eccesso, con risultati clinici di elevata soddisfazione. 

La scelta di valutare il livello di infiammazione (BAFF e PAF e il profilo di glicazione), capendo sul piano individuale quali siano gli alimenti mangiati in eccesso o in modo ripetitivo, consente di valutare risposte individuali molto precise. 

Una persona può avere la colite perché mangia troppo glutine, un’altra perché mangia troppi latticini o troppe sostanze lievitate. Una dieta “standard” troverà sempre dei limiti applicativi perché ogni persona è diversa e perché è stato già documentato, a esempio, che in Europa i cibi più spesso coinvolti sono glutine, latte e lieviti, mentre per la stessa malattia, in Cina, i cibi coinvolti sono riso, soia e mais. Non è colpa del singolo cibo, ma di come ogni persona se ne nutre. 

La lettura delle IgG secondo questo criterio è suggerito anche dal Ministero della Salute, nel suo recente documento sulle reazioni alimentari, in cui segnala che le Immunoglobuline G alimento-specifiche sono semplicemente l’espressione dell’uso di un alimento e non possono indicare una qualsivoglia “allergia”, come purtroppo fanno molti dei test IgG attualmente in commercio. Il Food Inflammation Test (Recaller o BioMarkers) indica da sempre che la presenza di IgG elevate per un grande gruppo alimentare o per un singolo alimento è espressione di eccesso di uso e mai di allergia, tanto che anche nei casi più rilevanti vengono comunque chiesti 7 pasti liberi su 21 alla settimana, attraverso una dieta di rotazione personalizzata. 

L’obiettivo finale è sempre quello di ridurre l’infiammazione e di consentire una dieta varia, completa e, aggiungo io, sempre piacevole. La salute passa anche dalla gioia del cibo e la possibilità di mangiare almeno 7 pasti alla settimana liberi consente di raggiungere da subito questo obiettivo.