Analgesici e segnali di allarme: quando bloccare il dolore fa crescere il rischio di infarto

15 Maggio 2017
Analgesici e segnali di allarme: quando bloccare il dolore fa crescere il rischio di infarto

Il sospetto che gli analgesici, i farmaci per ridurre il dolore, potessero aumentare il rischio di infarto miocardico era già stato avanzato negli anni scorsi.

Fino ad allora alcune specifiche situazioni, come quelle derivanti dall’impiego di anti Cox2 come il Vioxx (per il quale nel 2001 erano stati ipotizzati oltre 10.000 decessi per problemi cardiaci), erano state imputate a problemi del singolo farmaco, come se fosse una responsabilità diretta di una molecola “mal-studiata”.

Ora, invece, la rigorosa meta-analisi pubblicata sul BMJ il 9 Maggio 2017 riconosce che tutti i farmaci analgesici e antinfiammatori della categoria FANS (iniziali di Farmaci Antinfiammatori Non Steroidei), fin dall’inizio dell’assunzione e soprattutto nella prima settimana di uso, determinano l’aumento del rischio di infarto (Bally M et al, BMJ. 2017 May 9;357:j1909. doi: 10.1136/bmj.j1909).

Stiamo parlando di farmaci ad altissima diffusione, come ibuprofene, celecoxib, naprossene, rofecoxib. I farmaci più usati oggi ad esempio per i dolori artritici, per i dolori postoperatori, per le emicranie e per i dolori mestruali. Farmaci pubblicizzati intensamente anche a livello televisivo e radiofonico per un uso autonomo. 

Si badi bene, non vuol dire che determinano l’infarto, ma che aumentano il rischio di manifestarlo.

In molte situazioni è necessario guardare al dolore come segnale e non come malattia.

Vuol dire che se normalmente una persona di una certa età ha uno specifico rischio di infarto, l’assunzione di Brufen, Voltaren, Voltadvance, Flector, Celebrex, Nurofen, Antalgil e di tanti altri prodotti con gli stessi componenti, fin dalla prima assunzione e soprattutto nella prima settimana di impiego, può arrivare a triplicare e in alcune fasce di rischio a quadruplicare questo rischio.

Il tutto è molto più intenso e significativo per le persone che abbiano già in atto patologie cardiache o cardiovascolari ed aumenta per i dosaggi più elevati.

Si tratta di una ricerca che ha alcuni punti deboli, senza ombra di dubbio, ma una infinità di punti forti e per la prima volta ha potuto analizzare un numero elevato di dati e di persone (quasi mezzo milione di persone valutate) riuscendo a distinguere e a eliminare dai conteggi tutti i possibili fattori confondenti. 

Di fatto quindi da oggi sappiamo che:

  • Tutti i FANS tradizionali, compreso il naprossene, appaiono associati ad un aumentato rischio di infarto del miocardio.
  • Il rischio dovuto agli anti Cox2 studiati non sembra maggiore degli altri.
  • L’uso di questi prodotti per un breve periodo e ad alte dosi (più di 200 mg al giorno per il celecoxib, più di 100 per il diclofenac, più di 1200 per l’ibuprofene e più di 750 peril naprossene) è quello che determina il maggiore aumento di rischio.
  • Un uso superiore ai 30 giorni non determina più un rilevabile aumento di rischio.

Al di là della acquisizione di queste indicazioni, che riecheggiano temi a lungo nascosti, come il fatto che l’uso di farmaci antinfiammatori classici in caso di malattie infettive prolunga la durata della malattia, questo lavoro scientifico mi porta a fare delle considerazioni generali sul tema.

I FANS sono farmaci potenti, che hanno degli effetti importanti e utilissimi. Chiunque abbia avuto un dolore importante e abbia potuto risolverlo con uno di questi prodotti non può che volere bene a chi li ha inventati.

Eppure c’è una riflessione generale che riguarda tutti: in molte situazioni il dolore è un segnale, non è una malattia.

Dopo un mese dall’inizio della assunzione di analgesici, l’effetto di aumento del rischio scompare. Questo perché chi aveva da ammalarsi di cuore si è già ammalato. Significa che in molti casi il dolore artritico, il dolore di pancia o il dolore di testa non sono solo qualcosa da combattere, ma rappresentano qualcosa da capire più a fondo. L’uso di un analgesico antinfiammatorio per “nascondere” un sintomo è facile e deresponsabilizzante.

Noi cerchiamo da anni di studiare la relazione dell’infiammazione con l’alimentazione e con gli stili di vita, e il recente lavoro pubblicato sul NEJM ci ha confermato di essere sulla giusta strada.

L’infiammazione può essere trattata in modo attento. Esistono numerosi prodotti naturali che svolgono una naturale azione di modulazione infiammatoria per la quale non sono stati mai descritti effetti collaterali negativi (basti pensare alla Ribilla, alla Quercetina o alla Curcuma). Inoltre le scelte alimentari legate alla individuazione delle citochine e del profilo alimentare personale consentono di ridurre in modo efficace quasi tutti i tipi di dolore.

Nel nostro centro ad esempio affrontiamo sempre i dolori legati all’artrite, all’artrite reumatoide e all’artrite psoriasica anche con l’alimentazione, riducendo in modo misurabile l’entità dell’infiammazione. Andiamo cioè ad agire sulle cause, evitando di sopprimere un “segnale di allarme” in modo fine a se stesso. Non guariscono tutti, ma la maggior parte ottiene un beneficio sostanziale che rende meno necessario e talvolta inutile, l’uso di farmaci antinfiammatori.

Significa che si va ad interferire in modo fisiologico sui segnali di allarme che l’organismo sta lanciando in quel momento e si cerca di comprenderli in modo rispettoso della fisiologia dell’organismo.

Un mal di testa occasionale trarrà beneficio da un farmaco, ma se il mal di testa inizia ad essere ripetitivo o si somma ad una situazione generale di malessere, è meno rischioso lavorare sulla infiammazione generale ed evitare di “cancellare” un sintomo segnaletico prezioso.