Latte: bianco, ricco di calcio e non più innocente

21 Gennaio 2015
Latte: bianco, ricco di calcio e non più innocente

Nelle settimane precedenti il Natale sul British Medical Journal è stata pubblicata una ricerca effettuata da ricercatori svedesi dell’Università di Uppsala che hanno analizzato la stretta relazione tra uso di latte e aumento della mortalità per tutte le cause.

Chi beve più latte (donne e uomini hanno lo stesso tipo di risposta) ha una mortalità più elevata di chi ne beve meno, mentre le donne che bevono più latte hanno una possibilità di fratture osteoporotiche più elevata di chi beve meno latte (utile ripetere: chi beve più latte ha più possibilità di fratture osteoporotiche di chi non lo beve), l’opposto di ciò che da anni viene inculcato dai media (Michaelsson K et al, BMJ. 2014 Oct 28;349:g6015. doi: 10.1136/bmj.g6015).

La frase con cui Paul Mueller, uno dei più attenti redattori dello Journal Watch, ha titolato l’articolo dedicato a questa ricerca è emblematica della possibile rivoluzione concettuale provocata dai risultati. “Esiste una cosa come il bere troppo latte?”. Lo stupore di Mueller è giustificato dal fatto che nei paesi occidentali, il latte è considerato buono per principio, in virtù di una serie di simbolismi legati alla storia dell’uomo.

In realtà poi si può arrivare a scoprire che queste convinzioni sono fisse nella memoria, ma non sono vere. Abbiamo già discusso che per molti aspetti il latte è bianco, ma non innocente e anche se simbolicamente legato al candore e all’allattamento, il latte vaccino non è per forza buono come quello della mamma.

In dettaglio, i ricercatori hanno valutato la mortalità dovuta a qualsiasi causa e la probabilità di fratture (e più specificamente anche di fratture del femore) attraverso l’analisi di due grandi gruppi di svedesi: 61.433 donne (di età compresa tra i 39 e i 74 anni) e 45.339 uomini di età compresa tra i 45 e i 79 anni. Lo studio ha valutato gli effetti della assunzione di latte nel corso di 20 anni.

I risultati sono sicuramente sorprendenti, perché la mortalità per qualsiasi causa (cioè per ogni tipo di causa o malattia) è significativamente più elevata tra coloro che dichiaravano nei questionari un consumo di almeno 3 bicchieri di latte al giorno in confronto a quelli che non ne bevevano o ne bevevano comuqnue una quantità ridotta (meno di un bicchiere).

La relazione sembra lineare, cioè per ogni bicchiere in più bevuto si può evidenziare un aumento del rischio di ammalarsi. Inoltre negli uomini non si è visto nessun effetto protettivo del consumo di latte sulla prevenzione delle fratture, mentre nel gruppo delle donne si è visto che l’uso di latte comporta un aumento del rischio di frattura del femore.

Di molto interesse è il fatto che in un sottogruppo di bevitori di latte è stata documentata a livello urinario una maggiore escrezione di sostanze infiammatorie (come la Interleuchina 6 – IL6) che segnala il possibile coinvolgimento di una infiammazione indotta dall’alimento nel determinare questi effetti.

Gli stessi autori invitano alla cautela nella lettura dei risultati. La prima considerazione da fare è che in studi di questo tipo non può essere definita la causalità del latte nel determinare l’aumento di mortalità, perché potrebbe trattarsi semplicemente di una associazione comportamentale e non di un effetto diretto. Gli stessi risultati non si sono visti ad esempio per i formaggi, ma solo per il latte.

Il lavoro infatti stabilisce una correlazione tra uso di latte e mortalità e frattura del femore e non analizza le cause possibili degli effetti rilevati.

Per fare un semplice esempio non vengono considerati alcuni aspetti che potrebbero invece essere fortemente correlati con i risultati finali, come ad esempio il fatto di usare il latte zuccherandolo. È infatti di solito più raro che si zuccheri il formaggio, mentre l’abitudine a dolcificare il latte è purtroppo molto diffusa, e la correlazione tra dolcificazione e aumento di mortalità è stata già ben documentata.

Potrebbe quindi esserci un rapporto non causativo, ma semplicemente di segnale. Come se uno dicesse che quelli che vanno in giro con una corda da scalatore hanno una mortalità più elevata di quelli che vanno in giro con le pinne. Non è colpa né delle pinne né della corda da scalatore, ma è sicuramente più facile che chi vada in giro con la corda da scalatore poi scali effettivamente una montagna esponendosi a qualche rischio maggiore del fare il bagno in mare su una spiaggia durante l’estate.

Sul latte e sui suoi possibili effetti negativi sappiamo già molte cose, come la sua possibile relazione con il Parkinson o con un possibile aumento delle forme tumorali ormonali (come mammella e prostata) e quindi è bene mantenere sul suo uso sistematico una certa cautela.

In realtà, nonostante i dati relativi all’uso continuativo del latte o dei latticini non siano tra i più rasserenanti tra quelli a disposizione, continuiamo a segnalare che il suo uso non sistematico, nel rispetto anche della tradizione culturale mitteleuropea e italiana, possa essere positivo.

La nostra esperienza di studio dell’infiammazione da cibo e delle IgG per gli alimenti (attraverso test come Recaller o BioMarkers) ci consente di capire che la possibilità di avere reazioni infiammatorie da un cibo, latte o glutine che sia, dipende dalla sua sistematicità e continuità di uso.

In Italia ad esempio, la reazione infiammatoria al latte e al glutine è molto comune, mentre in Cina la reazione più diffusa è nei confronti di soia e riso.

Sappiamo per certo che la varietà alimentare è un elemento protettivo nei confronti delle risposte infiammatorie e che il male non viene da un cibo in sé, ma che può dipendere dalla sua eccessiva e ripetuta utilizzazione.

Può essere “il troppo”, l’abuso continuo, a dare effetti negativi, molto più dell’uso occasionale all’interno di una alimentazione sana e variata che rispetta il gusto, la tradizione culturale e il piacere della tavola affiancato allo stimolo per il benessere.