La dieta per il recupero della tolleranza

28 Febbraio 2012
La dieta per il recupero della tolleranza

Riceviamo spesso domande di lettori che si sono sottoposti a test per la diagnosi di “intolleranze alimentari” e in seguito hanno molti dubbi su come procedere nel trattamento dietetico.

In primo luogo teniamo a sottolineare che tali dubbi andrebbero espressi al terapeuta che ha prescritto il test e che la terapia dietetica dovrebbe essere sempre monitorata da un nutrizionista esperto nel corso di tutto il processo.

Oggi sappiamo con certezza che la modulazione della assunzione alimentare può essere uno dei più importanti fattori per controllare la infiammazione da cibo, causa di una vasta serie di disturbi acuti e cronici.

Detto questo, è utile segnalare che, indipendentemente dal tipo di test eseguito, una volta individuate eventuali reattività si può procedere secondo gli standard espressi dal test per la misurazione della infiammazione da cibo, che non prevedono mai l’eliminazione totale degli alimenti responsabili, ma sono centrati sul recupero della tolleranza mediante una dieta di rotazione – con un procedimento simile allo svezzamento del lattante – come indicato di seguito.

La terapia dietetica

Gli obiettivi di una terapia dietetica corretta, descritta anche nel libro di Attilio Speciani “Recuperare la tolleranza alimentare” sono:

  • favorire il recupero della tolleranza nei confronti dei cibi non tollerati;
  • evitare pericolose diete di eliminazione, utili solo in caso di allergia classica, quella cioè mediata da IgE ad alto titolo;
  • consentire il rispetto della socialità e del piacere legati all’alimentazione mediante l’attuazione di una dieta di rotazione che preveda alcune giornate di alimentazione libera.

Nella situazione sociale e ambientale attuale appare indispensabile favorire la varietà dell’alimentazione, anche perché la ripetizione sistematica dell’assunzione di alcuni alimenti (anche nel caso che vadano a sostituire quelli non tollerati) dà facilmente luogo all’insorgere di nuove ipersensibilità.

Le diete di eliminazione sono rischiose

Uno degli effetti positivi della dieta di rotazione rispetto a quella di eliminazione è il controllo delle reazioni infiammatorie senza la perdita di tolleranza nei confronti dell’alimento, un rischio ben illustrato dalla storia che segue.

Lavorando con un gruppo di nove ragazzi che presentavano una sintomatologia allergica diffusa (dermatite atopica, asma) e RAST positivi per il pesce, i due noti immuno-allergologi Pascual e Larramendi provarono a eliminare completamente i prodotti ittici dalla loro alimentazione.

I ragazzi, che prima della dieta non avevano alcun tipo di manifestazione anafilattica connessa all’assunzione di pesce, dopo un periodo di eliminazione totale reagirono tutti e nove con sintomi immediati di tipo allergico (orticaria, angioedema, vomito, rinite, asma) anche al semplice contatto col pesce. Due di loro anche alla semplice percezione del suo odore.

Significa quindi che l’ingiustificata eliminazione dalla dieta di un gruppo di alimenti può diventare anche pericolosa e quindi non va effettuata. 

La dieta di rotazione

Una dieta di rotazione è una dieta che prevede l’assunzione libera – in una singola giornata che deve poi essere seguita da circa tre giorni completi di eliminazione – dell’alimento verso il quale si è individuata l’intolleranza.

In pratica, per esempio, un individuo intollerante al latte potrebbe assumere latte, latticini, dolci che ne contengono, formaggi e tutti gli altri alimenti “vietati” la domenica, ma poi dovrà astenersi dall’assumerne – anche in quantità ridottissime – il lunedì, il martedì e il mercoledì, potendo poi tornare ad assumerli il giovedì.

Per consentire una maggiore flessibilità dell’alimentazione rispetto alle consuetudini sociali, può essere utile lasciare come giorno libero il sabato o la domenica (cioè un solo giorno del week-end e non entrambi), ovvero il giorno in cui è più frequente mangiare con amici o parenti, e una giornata a metà settimana (ad esempio il mercoledì).

A quel punto viene trovato un buon equilibrio tra le necessità di mantenere circa tre giorni di “astinenza” tra un giorno di assunzione e l’altro e la necessità di rendere una dieta di questo tipo “fattibile” senza creare gravi problemi organizzativi, e soprattutto mantenendo l’efficacia terapeutica dello schema dietetico.

Dopo un certo periodo di questa dieta, che può variare tra le 2-3 settimane e i 2-3 mesi, se la sintomatologia clinica ed i test diagnostici a quel punto danno esito negativo, è possibile reintrodurre l’alimento con maggiore frequenza.

Nel caso di test di valutazione delle IgG (Recaller o BioMarkers) la valutazione è da fare sull’andamento clinico, perché sovente le IgG per gli alimenti restano ancora elevate per qualche mese, anche se la sintomatologia è completamente regredita.

Uno schema possibile diventa il seguente: libertà alimentare in entrambi i giorni del week-end (sabato e domenica) ed in un unico giorno a metà della settimana (di solito il mercoledì).

Va specificato che il giorno libero non rappresenta un giorno in cui per forza tutti i pasti e anche gli spuntini siano fatti con un sovraccarico potente dei cibi controllati, perché pur concedendosi qualche “sano sgarro” questo non avvenga in ogni occasione di alimentazione, perché è utile che l’organismo non subisca sistematiche aggressioni al proprio equilibrio.

Se la risposta clinica è soddisfacente, a quel punto si può espandere ulteriormente l’assunzione degli alimenti controllati nel giro di altri 2-3 mesi, fino ad arrivare a una dieta che preveda almeno un giorno di restrizione alla settimana (una specie di “venerdì di magro”), per evitare il ricarico alimentare sistematico.

È comunque il nutrizionista di riferimento che deve seguire, con responsabilità, questa reintroduzione e guidare la persona malata verso il recupero pieno della tolleranza alimentare per l’alimento considerato. Il terapeuta cioè, deve divenire la guida di un nuovo “svezzamento”.