Le castagne: storia, leggende e simbologie

13 Ottobre 2010
Le castagne: storia, leggende e simbologie

Il castagno (Castanea sativa) è una pianta della famiglia delle Fagacee, cui appartengono anche altri due grandi protagonisti delle nostre coperture boschive quali la quercia e il faggio.

È un albero caducifoglio di notevoli dimensioni (fino a 35 metri d’altezza e 6-8 metri di diametro del fusto) e molto longevo, dallo sviluppo abbastanza lento ma, dai cinquant’anni di vita in poi, spettacolare grazie al fusto eretto e piuttosto tozzo che slanciato, alle grandi ramificazioni robuste, alla chioma sontuosa composta di foglie dure, lanceolate,seghettate ai margini, di un verde intenso nella pagina superiore e più tenue in quella inferiore.

Il periodo della fioritura può variare a seconda dell’altitudine, della latitudine e del clima, ma è di norma compreso tra giugno e luglio. I fiori sono unisessuali: quelli femminili crescono isolati o in piccoli gruppi alla base di quelli maschili, che sono costituiti da lunghe infiorescenze a forma di spiga, di color giallo pallido o giallo-verdognolo. Dalle infiorescenze femminili evolvono poi le cupole spinose, dette comunemente ricci, all’interno delle quali sono contenuti i frutti commestibili, chiamati castagne.

Le castagne sono in numero di tre per ogni riccio, di forma semisferica le due laterali e di forma schiacciata quella centrale. Questo vale per il castagno selvaggio (cioè selvatico, spontaneo), mentre nella pianta coltivata e selezionata ogni riccio contiene un frutto, normalmente di maggiori dimensioni della castagna, detto marrone.

Il castagno è pianta di origine antichissima, essendo tra le latifoglie che fecero la loro comparsa sulla Terra nel Cenozoico, popolando di foreste vastissime regioni. La sua zona di diffusione originaria è molto estesa, comprendendo l’intero bacino del Mediterraneo, i litorali atlantici dell’Europa meridionale e dell’Africa settentrionale, l’arco alpino, l’Asia Minore e spingendosi fino a lambire il Mar Caspio.

La castagna è dunque presente nella dieta dell’uomo fin dalla preistoria e, in epoca storica, le sue virtù erano ben note e celebrate già dagli autori più antichi. Il greco Senofonte definì il castagno “l’albero del pane” e con il nome di “pane dei poveri” la castagna è stata per secoli la presenza più assidua sulla mensa delle famiglie contadine.

Prima della scoperta dell’America, quando in Europa non esistevano ancora le patate né il mais (materia prima della polenta), la castagna era infatti l’alimento che più di ogni altro preservava dalla fame e permetteva di superare i periodi di carestia.

Questo non soltanto grazie alla sua abbondanza (in Italia vi sono tuttora 800.000 ettari coperti da castagneti, pari al 15% dell’intera superficie boschiva) e alla sua facilità di conservazione allo stato essiccato, ma anche alle sue virtù nutrienti e al benefico senso di sazietà che dà il suo consumo.

Con la farina di castagne si prepara una polenta che ha preceduto di secoli, o forse di millenni, quella di granturco, anticipandone alcune delle caratteristiche proverbiali: alimento di poco prezzo ma gustoso, utilizzabile in svariati modi, riciclabile con qualche semplice accorgimento più di una volta, e soprattutto adatto a soddisfare, anche in quantità ridotte, gli affamati.

Quel senso di sazietà, che si raggiunge presto, è spesso ingannevole, come testimonia un bellissimo e poco frequentato adagio dell’Italia centrale (“la polenta: presto tira e presto allenta”), ma sentirsi sazi non era, un tempo, un piacere così frequente da poter essere sottovalutato.

I castagneti hanno conosciuto, in Italia in particolar modo, due grandi fasi di espansione. La prima fu in epoca romana: i Romani, che apprezzavano moltissimo di questa pianta sia il frutto sia il legno (tra i molteplici usi che ne facevano figurava quello, appreso dagli Etruschi, di farne pali per le vigne), la esportarono un po’ dovunque, impiantando castagneti anche là dove non esistevano, sia nel bacino del Mediterraneo (in Sardegna, ad esempio, dove il castagno non è originario) sia in territori dal clima apparentemente meno adatto, come le regioni d’Europa a nord delle Alpi.

La seconda grande fase di espansione riguardò più specificamente l’Italia e fu dovuta all’iniziativa di Matilde di Canossa (1046-1115) che, convinta dell’importanza essenziale che le castagne rivestivano per l’alimentazione delle popolazioni rurali, ne moltiplicò, con l’ausilio dei monaci benedettini, la diffusione, ideando addirittura un criterio di disposizione degli alberi (il sesto matildico) per la loro migliore crescita e fruttificazione. 

In seguito, e specie nel secondo dopoguerra, i boschi di castagne sono entrati, nel nostro paese, in una fase di decadenza e arretramento, a causa sia dell’abbandono delle campagne (e in particolare delle zone montuose), sia del miglioramento delle condizioni di vita (e della conseguente perdita d’interesse del prodotto come fonte di sostentamento), sia infine dell’azione di due parassiti che hanno provocato nei castagneti autentiche epidemie di mal dell’inchiostro e di cancro corticale, due malattie che indeboliscono la pianta fino a ucciderla. 

Negli ultimi vent’anni si è tuttavia assistito a una ripresa d’interesse verso questo magnifico albero e il suo frutto. Notevoli successi nella lotta contro le malattie del castagno sono stati ottenuti grazie all’innesto con la varietà giapponese (Castanea crenata), resistente a entrambi i parassiti.

Il castagno è in assoluto tra gli alberi europei più longevi: la presenza di esemplari millenari è attestata in varie regioni d’Italia, in Francia e in Inghilterra.

Il più noto tra questi patriarchi sorge in Sicilia, sul versante orientale dell’Etna, nel territorio comunale di Sant’Alfio. Alcuni botanici gli attribuiscono la vertiginosa età di 3-4000 anni, il che ne farebbe con ogni probabilità l’essere vivente più vecchio d’Europa. La sua circonferenza è di 22 metri, l’altezza di circa 25, la circonferenza della chioma di oltre 50 metri.

È chiamato il Castagno dei Cento Cavalli, perché la leggenda vuole che, in epoca medievale, una regina (quale non è dato sapere con certezza) vi abbia trovato rifugio da un temporale con i cento cavalieri della sua scorta e le rispettive cavalcature. Un ombrello decisamente ospitale.

Se la distinzione tra castagne e marroni ha un suo interesse agricolo, botanico e merceologico, nella lingua quotidiana le due parole sono sostanzialmente sinonimi e indicano del resto lo stesso colore, anche se nessun italiano direbbe mai di un suo simile che ha i capelli marroni o che indossa un paio di scarpe castane.

Per trovare conferma dell’intercambiabilità dei due termini, si pensi a questo aneddoto storico.

Benché santo e dottore della Chiesa, Isidoro di Siviglia (VI-VII secolo) aveva fantasie abbastanza audaci da assimilarlo, per inventività di simbologie e dietimologie, a un emulo ante litteram di Freud. A suo giudizio, infatti, le castagne hanno la forma dei testicoli e il loro nome deriverebbe dal verbo “castrare”: perché, quando si apre il riccio per estrarne i frutti gemelli, l’operazione che si compie ricorda quella della castrazione. In verità i frutti nel riccio sono tre, non due, ed è lecito domandarsi quale ruolo Isidoro attribuisse a quello centrale.

Ma l’aspetto più interessante di questa storia è un altro e sta nelle diffusissime espressioni “non rompermi i marroni”, “mi sono fatto due marroni così”, e simili. Segno evidente che la somiglianza tra castagne e testicoli non è stata notata soltanto dal buon Isidoro, ma segno anche che castagna e marrone sono, per il parlante e per il pensante (o malpensante) lo stesso identico frutto.

Detto questo, si rabbrividisce al pensiero dell’etimologia che un emulo contemporaneo di Isidoro di Siviglia potrebbe attribuire all’espressione “prendere in castagna”. Ma sarebbe un brivido del tutto ingiustificato. In verità anche questa frase idiomatica è una dimostrazione dell’intercambiabilità dei due termini, castagna e marrone.

Il sostantivo marrone, infatti, non significa soltanto castagna, ma anche errore, svarione, come è attestato da molti autori. “Prendere in marrone” significa perciò “cogliere in fallo”. Essendo marrone sinonimo di castagna, la seconda parola è stata sovrapposta alla prima per uno slittamento inconsapevole di significato. Si tratta dunque di un errore, cioè appunto di un marrone. 

Più facile e meno avventuroso è risalire all’origine di un altro modo di dire che ha per protagonista questo popolarissimo frutto: “togliere le castagne dal fuoco”. Sono origini nobili, queste: si possono infatti reperire in una favola di La Fontaine, intitolata Le singe e le chat (“La scimmia e il gatto”). 

Una scimmia, Bertrand, e un gatto, Raton, stanno davanti al fuoco e guardano con l’acquolina in bocca una bella manciata di castagne che arrostiscono sulle braci. “Ah – dice Bertrand – se io avessi una zampetta adatta come la tua! Non resisterebbero a lungo, quelle castagne!” Raton non se lo fa dire due volte: con la sua zampetta, delicatamente, rovista un po’ nella cenere, poi ritira “le dita” per non scottarsi, poi dà un’altra zampata. E inquesto modo, a poco a poco, fa cadere dalle braci ben tre castagne, che Bertrand si affretta a croquer, cioè a sgranocchiare ma, è evidente, anche a scroccare (escroquer). Sopraggiunge una domestica, l’operazione deve essere sospesa e il povero Raton, dopo aver tolto le castagne dal fuoco a beneficio di Bertrand, rimane a bocca asciutta.

Di sicuro, gli saranno girati un po’ i marroni.

 

di Ezio Sinigaglia