L’ABC della pazienza (ovvero l’arte di amare, nonostante tutto, il proprio medico) – Anamnesi

21 Maggio 2004
L'ABC della pazienza (ovvero l'arte di amare, nonostante tutto, il proprio medico) - Anamnesi

Contrariamente a quanto ipotizzato alla voce A, la lingua del paziente è di prezioso aiuto all’esercizio della professione medica e l’anamnesi è, nel romanzo della relazione medico-paziente, il capitolo in cui questa verità si manifesta nella forma più incontrovertibile. 
Per quanto esperto, abile, accentratore ed eventualmente disumano possa essere, un medico non riuscirà mai a fare un’anamnesi senza la collaborazione linguistica del paziente
Anamnesi è una parola presa di peso dal greco (anàmnesis), lingua di per sé più affine alla scienza della medicina che all’arte della pazienza. E questo è un primo elemento di ambiguità allarmante, visto che la lingua chiamata ad esprimersi è in questo caso quella del paziente.

Un secondo elemento di ambiguità è dato dal fatto che la parola anamnesi, come la massima parte dei termini trasferiti tal quali dal greco all’italiano, ammette due pronunce differenti: alla greca, con accentazione sdrucciola (anàmnesi), e alla latina, con accentazione piana (anamnèsi). 
Ne possono seguire discussioni oziose, liti accese e scommesse che non vincerà nessuno, perché entrambe le pronunce sono perfettamente lecite e corrette. Nella nomenclatura medica gli accenti sono sommamente ondivaghi e in linea di principio non vale la pena di correggerli, perché non ne se trova mai uno del quale si possa dire che è sbagliato: basti pensare che la rètina deve il suo nome astruso al fatto di essere precisamente una retìna. 
Il terzo elemento di ambiguità della parola anamnesi è il più temibile e fertile di tutti. Basta infatti cominciare a leggerla dalla terza lettera e aggiungere la prima dopo l’ultima per rendersi conto che“anamnesi”, che significa “ricordo”, è l’anagramma di “amnesia” con il resto di una N
Se ci si ferma un attimo a pensare che, a dispetto della Torre di Babele, la radice di “no” è sempre N in tutte le lingue conosciute, morte e vive, se ne può dedurre, non senza un brivido di emozione, che l’anamnesi consiste di un grande lago di amnesia più una piccola scrollatina della testa. Il che spiega forse perché la medicina contemporanea ne faccia un uso tanto parco e sbrigativo. 
L’amnesia, al momento dell’anamnesi, può assumere forme svariatissime, dalle più involontarie alle più deliberate, passando gradualmente dall’oblio alla rimozione e dall’autocensura alla reticenza fino alla menzogna vera e propria.

In effetti l’anamnesi, in quanto racconto orale, è un genere letterario che serpeggia acrobatico fra l’autobiografia, la confessione e il curriculum vitae, e tende quindi irresistibilmente, come questi, alla riscrittura fantastica del passato. Nel suo vocabolario confluiscono verbi all’apparenza inconciliabili, ma inclini a mescolarsi in policromie meravigliose come i cento peli del pennello sulla tela dell’autoritratto: edulcorare e drammatizzare, nascondere e sottolineare, trascurare e particolareggiare, abbellire e imbruttire, ingigantire e minimizzare. 
Il quadro che ne esce è per l’appunto un quadro, dove il colore abbaglia e dove il profondo è solo un abile inganno del superficiale: così le grandi protagoniste dell’anamnesi sono le malattie esantematiche, la grande assente la psicologia. 
La medicina omeopatica, che attribuisce all’anamnesi una centralità davvero singolare, ha concepito dettagliati questionari cui spetta il compito di tenere a bada l’amnesia. 
Anziché affidarsi al libero racconto del paziente, ne sollecita la memoria lacunosa con domande ispide, arcigne e potenzialmente illuminanti. Ma l’amnesia è sempre in agguato. Nella sua natura immateriale di assenza, può nascondersi dovunque: e certo non trova alcuna difficoltà ad acquattarsi nelle mille pieghe dell’emozione, dell’imbarazzo, della vergogna o della semplice fretta di rispondere
Così alla domanda “Di che cosa ha paura?” ci può capitare benissimo di rispondere “Della morte”, dimenticandoci lì per lì della vera paura che ci distingue e ci umilia (quella del vuoto, degli scarafaggi, dei ladri, delle lucertole o dei topi) oppure di balbettare un impacciato “Mah, di niente in modo particolare”, mentre, con un filo di coraggio (proprio quel filo che la domanda ci ha troncato), dovremmo rispondere onestamente: “Guardi, non ho mai avuto paura di niente in vita mia come di questa sua terribile domanda”. 
Un caso particolare di anamnesi è quello che concerne il rapporto fra il paziente e l’analista. Qui infatti, in forza di un rovesciamento paradossale, l’amnesia è la benvenuta: è lei, l’amnesia, il punto di partenza, il casus belli, la pronuba della relazione con tutti i suoi transfert tempestosi, la generatrice di parcelle. Senza amnesia non ci sarebbe psicoanalisi. Tutto si ribalta, quindi: se là era l’anamnesi ad essere punteggiata di amnesie, qui sarà l’amnesia a lasciarsi piano piano rosicchiare dai ricordi. 
Particolarissimo è poi il caso dell’anamnesi ravvicinata cui ci sollecita il dentista e della conseguenteridicola amnesia che consiste nel non ricordare più qual è il dente che doleva. Il dentista, che è il più pragmatico e meccanizzato di tutti i medici, ci farà tornare la memoria in un baleno, con uno spruzzo d’aria fredda. Ma resta il fatto che, in presenza del medico, perfino il dolore è capace di tradire il paziente, assentandosi proprio nell’unico momento in cui se ne ha bisogno.

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