I cavoli: curiosità linguistiche

29 Febbraio 2008
I cavoli: curiosità linguistiche

“Con i capperi nel Regno vegetale e con la casseruola in cucina, il malcapitato cavolo condivide, senza alcuna colpa se non quella di cominciare con le due lettere “ca”, il destino eufemistico riservato ad alcune sezioni alfabetiche del vocabolario, e alla C con particolare abbondanza. Meno compromettente della cazzuola e della citata casseruola, più maneggevole dei capperi, enormemente più flessibile dell’indeclinabile caspita, il cavolo è un perfetto sostituto linguistico dell’organo sessuale maschile nella sua versione più popolare.
Lo si può prendere così com’è, al singolare, per le esclamazioni di stupore, ira, rammarico, approvazione o disapprovazione. Lo si può volgere con semplicità al plurale per farsi i cavoli propri o quelli altrui. Lo si può perfino estrarre al participio passato da un verbo inesistente per fare, dire o scrivere cavolate di ogni genere.Ci si può infine incavolare, del tutto incongruamente, come un toro. Più interessante dell’analisi di questa scontatissima vocazione eufemistica del cavolo è la sua presenza un po’ misteriosa in due frasi fatte o luoghi comuni assai diffusi.
Perché mai si dirà, per significare il non plus ultra della disomogeneità, della inopportunità e della non pertinenza, “c’entra come i cavoli a merenda”? Forse che, per merenda, sarebbero più adatti i funghi trifolati, gli spaghetti aglio e olio o i topinambur? È possibile che i cavoli siano stati prescelti proprio per l’effetto comico che immancabilmente si lega alla loro proprietà sostitutiva. E perché mai, nella fantasiosa e pudica educazione sessuale di una volta, i bambini dovevano nascere proprio sotto i cavoli? Qualcuno dice: perché hanno la foglia larga. Ma non sono gli unici. Secondo altri, invece, sarebbe in gioco il valore emblematico del cavolo come simbolo della fertilità. Un simbolo nordico, a quanto pare: si dice che, un tempo, fosse tradizione nei paesi scandinavi donare alle coppie di novelli sposi cavoli da trapiantare in vasi da sistemare sul tetto, sui davanzali degli abbaini. Così i bambini, che a quell’epoca venivano al mondo in casa, sul letto coniugale, nascevano letteralmente sotto i cavoli. Mentre, se li avesse portati la cicogna, sarebbero senza alcun dubbio nati sopra o in mezzo ai cavoli.
Apparentemente ancora più inspiegabile è l’uso poetico del cavolo in francese, dove mon petit chou, cioè “cavoletto mio”, è il più tenero degli appellativi con i quali una mamma può rivolgersi al figlio o all’amante: come dire tesoruccio, dolcezza, cocco mio, micino. E, del resto, il doppio cavolo, chouchou, significa “prediletto”, “beniamino”. Si potrebbe pensare che, per così dire, c’entri come i cavoli a merenda. Ma sarebbe un errore. Chou, chou à la crème è in francese anche il nome del bigné, forse per la sua somiglianza di forma con i cavoletti di Bruxelles. È dunque la quintessenza della tenera dolcezza che si scioglie, del boccone appetitoso. Un babà, praticamente.
Ma con le etimologie bisogna essere prudenti. Si azzardano ipotesi che sembrano a prima vista suggestive: però mancano le prove. Prendete questa, per esempio. Sempre in francese, fare cilecca, andare a vuoto, andare in bianco si può dire anche così: faire chou blanc. Fare cavolo bianco: perché mai? Ci si potrebbe arrovellare per ore, intorno a questo rompicapo. Ma del tutto inutilmente. Sembra che l’origine dell’espressione consista in un difetto di pronuncia degli abitanti del Berry, i quali nel loro dialetto dicono choup per dire coup, “colpo”. Insomma un colpo bianco, a vuoto. Anche questa volta, il povero cavolo non c’entra.