Fegato grasso e malato? Meglio essere meno “raffinati”

12 Ottobre 2007
Fegato grasso e malato? Meglio essere meno “raffinati”

Se vi piacciono le sigle potete chiamarla col suo acronimo inglese: NAFLD, che sta per Non-Alcoholic Fatty Liver Disease, cioè “malattia del fegato grasso non originata da alcolismo”. Ovvero: steatosi epatica (non alcolica).

Si tratta di una malattia piuttosto grave, dovuta all’accumularsi nel fegato di una quantità di grassi abnorme (ben più del 5% in termini di peso, che è la percentuale standard). Nei casi più gravi questa sindrome, fortemente correlata all’obesità, può evolvere in cirrosi epatica, con esiti anche mortali.

Uno studio condotto sugli animali da un gruppo di pediatri di Boston, Massachusetts, e pubblicato sulla rivista mensile Obesity, apre nuove linee interpretative sulle cause di questa disfunzione e, soprattutto, interessanti prospettive di prevenzione e cura, assolutamente non farmacologiche (KB Scribner et al, Obesity 2007 September, 15(9):2190-2199).

Una popolazione di cavie è stata suddivisa in due gruppi: il primo è stato nutrito, per tutta la durata dell’esperimento, con una dieta ad alto indice glicemico, rappresentata da un amido di mais a veloce assorbimento e rapida digestione; il secondo, al contrario, ha seguito una dieta a basso indice glicemico, rappresentata da un amido di mais a lenta digestione.

I contenuti della dieta, in termini di calorie, proteine, grassi e carboidrati erano identici e, a sei mesi dall’inizio dell’esperimento, tutti i ratti avevano lo stesso peso. Tuttavia gli animali nutriti con il mangime ad alto indice glicemico presentavano, nel sangue e nel fegato, una quantità di grassi doppia dei loro “colleghi” dell’altro gruppo.

Nell’alimentazione umana i cibi ad alto indice glicemico e di rapida assimilazione (che, cioè, si bruciano in fretta) sono rappresentati soprattutto dallo zucchero, dai cereali raffinati (pasta, riso e pane “bianchi”) e, ancora, da quei cereali da prima colazione di produzione industriale (corn flakes e simili) che, soprattutto negli Stati Uniti, svolgono ormai un ruolo centrale nella dieta dei bambini e degli adolescenti.

Questi alimenti, dunque, hanno altissime probabilità di aumentare la percentuale di grassi presente nel sangue e nel fegato, predisponendo all’obesità e a serie disfunzioni epatiche.

Gli alimenti che, al contrario, presentano un basso indice glicemico e sono assimilati più lentamente sono soprattutto la frutta, la verdura, i legumi e i cereali integrali (non trattati per diventare bianchi).

È facile arguire che una dieta basata prevalentemente su questo tipo di cibi è provvidenziale per prevenire l’obesità e, con riferimento più specifico allo studio in questione, la steatosi epatica.

Secondo gli autori, benché non si possano al momento trarre conclusioni certe da uno studio sugli animali, questa ricerca dovrebbe incoraggiare a un radicale cambiamento della dieta, specie per i bambini, non soltanto a fini preventivi, ma anche a scopi terapeutici, là dove, cioè, le percentuali di grasso presenti nel fegato sono già pericolosamente alte.

Più in generale i risultati di questo esperimento possono aiutarci a riflettere sulle cause dell’obesità, la cui crescente diffusione è evidentemente legata più alla qualità dei cibi che non alla loro quantità.

di Ezio Sinigaglia