Abbassare eccessivamente la pressione può fare male, a volte troppo

25 Settembre 2017
Abbassare eccessivamente la pressione può fare male, a volte troppo

La pressione arteriosa è un parametro molto importante per ogni organismo e i danni di una pressione elevata sono ben noti.

Fortunatamente infatti esistono farmaci che la possono controllare anche quando i supporti naturali (come l’uso del Magnesio, ad esempio) e soprattutto l’alimentazione e lo stile di vita (sonno, stato emotivo e attività fisica) non sono stati sufficienti a controllarne l’innalzamento o gli sbalzi.

Purtroppo avviene a volte che, quando la pressione arteriosa si alza, si inizi subito il trattamento farmacologico senza prima valutare attentamente se il cambio di alimentazione sia in grado di modificarne le caratteristiche. 

Questo porta in molti casi alla assunzione eccessiva (e talora non necessaria) di farmaci antipertensivi, in grado cioè di abbassare la pressione in modo intenso. 

Capita così, dopo anni di uso del farmaco, di ritrovare persone di età superiore ai 65 anni che sono abituate al loro farmaco per la pressione e ai loro livelli usuali e che purtroppo non si rendono conto di invecchiare. Con il progredire degli anni infatti la pressione necessaria ad un anziano per restare bene in piedi e ben saldo sulle proprie gambe potrebbe essere individualmente ben più elevata.

Almeno due lavori clinici importanti hanno definito che a 75 anni la pressione ottimale per ridurre il rischio di cadute è di 165/85. Ben diversa da quella che si vuole mantenere con il trattamento farmacologico.  

Quando si percepisce instabilità, bisogna misurare la pressione distesi e poi subito dopo essersi alzati in piedi; spesso c'è una caduta di pressione notevole, che obbliga a ridurre eventuali farmaci in uso.

Questo tipo di situazione si può verificare anche in condizioni di calore intenso, quando si beve poco e anche in condizioni di forte vento o di continuo uso di aria condizionata (ad esempio durante i voli intercontinentali). Il vento o l’aria condizionata “rubano” liquidi all’organismo e una persona in trattamento farmacologico potrebbe trovarsi in condizioni di ipotensione senza rendersene conto. 

La definizione di “ipotensione ortostatica”, la condizione in cui la pressione arteriosa scende in modo sensibile quando ci si alza in piedi dopo essere stati distesi, è cambiata negli ultimi mesi. 

Mentre fino a poco tempo fa si valutava la pressione entro 3 minuti dall’essersi alzati, nel settembre del 2017 è stato pubblicato su JAMA Internal Medicine il risultato di una ricerca effettuata alla Johns Hopkins School of Medicine di Baltimora nella quale si è evidenziato che anche nei soggetti di mezza età la valutazione effettuata entro solo 1 minuto dall’essersi alzati in posizione eretta consente di evidenziare una relazione più stretta con gli eventi patologici connessi al calo pressorio (cadute, vertigini, instabilità, svenimento e così via) (Juraschek SP et al, JAMA Intern Med. 2017 Sep 1;177(9):1316-1323. doi: 10.1001/jamainternmed.2017.2937). 

Questo lavoro è illuminante, perché spesso, nei soggetti di età più avanzata, nel giro di tre minuti la pressione tende spesso a stabilizzarsi di nuovo, pur manifestando ad 1 solo minuto dall’alzarsi in piedi una forte caduta differenziale. In ambito clinico, in studio come in ospedale, si misura magari una pressione di 130 su 70 e poi, dopo che il paziente si è semplicemente seduto sul lettino, la pressione scende a 100 su 60, con un calo improvviso di 30 punti della massima che può spiegare le cadute e gli inciampi erroneamente ritenuti da distrazione. Possono essere in realtà da ipotensione, da mancanza di forze indotta dal farmaco e meritano una attenzione maggiore.

Insomma, la tendenza a volere abbassare la pressione arteriosa a tutti i costi si scontra con il buon senso.

Anche un altro lavoro pubblicato su Lancet nell’aprile 2017 ha evidenziato che la volontà di abbassare la pressione a livelli inferiori ai 140/120 su 80/70 porta a eventi cardiovascolari più intensi e numerosi del tenere la pressione su questi standard (Bohm M et al, Lancet. 2017 Jun 3;389(10085):2226-2237. doi: 10.1016/S0140-6736(17)30754-7. Epub 2017 Apr 5).

Nel lavoro in questione si è voluto impiegare ramipril, telmisartan, entrambi o nessuno per verificare su 31.000 pazienti ad alto rischio cardiovascolare l’efficacia della terapia.

Scendere a valori inferiori ai 120 di massima (la sistolica) anziché portare a benefici (come si riteneva, considerando la pressione un “nemico”), ha portato invece a un maggior numero di eventi avversi e di problemi. Con la pressione troppo bassa il cuore fa fatica a funzionare adeguatamente e molte condizioni che sollecitano il sistema cardiocircolatorio (anche solo il muoversi rapidamente) diventano potenziali pericoli.

Per questo quindi si cerca sempre di iniziare il trattamento antipertensivo con un cambio di alimentazione e solo quando invece si arriva comunque ad impiegare un farmaco, si valuta attentamente che la pressione non scenda troppo, tenenedo in considerazione il calore ambientale, lo stress emotivo e spesso anche solo l’avanzare dell’età, elementi che richiedono un po’ più di pressione sanguigna per fare arrivare bene il nutrimento al cervello.

Come dimostrato nei lavori citati, qualche punto di pressione in più a volte salva la vita.

Il buon senso consente nel caso individuale di andare oltre ai numeri e alle linee guida più serrate e applicare invece delle soluzioni scientifiche e personalizzate per migliorare lo stato di benessere.